Negli anni successivi alla fine della II Guerra Mondiale un notevole fermento operativo avvia il ripristino di quanto andato distrutto e insieme propone delle novità che la situazione rende interessanti.
di Emanuele Tabasso
Andiamo indietro giusto di quindici anni e siamo all’Armeria Martinengo di Cuneo trattando un pezzo particolare nel mercato dei fucili usati da porre in rastrelliera e magari impiegare nella caccia in montagna: siamo attratti dal modello, un Mauser 66 primo tipo, dalla cartuccia camerata, il 7×66 Vom Hofe, e non ultimo dall’ottica Swarovski 12×56. Insieme all’amico Remo, titolare dell’armeria, non può mancare Carlo, il Maestro della caccia al camoscio: valutato il pezzo su cui avevamo posto l’occhio, trattiamo il prezzo e intanto arriva sul bancone un fucile del tutto particolare, un sovrapposto Le Bréton allo stato di nuovo, inusuale nella tecnica, nella forma e soprattutto nella leggerezza da meritare una trattazione a sé. La proposta di aggiungere con minimo incremento di spesa anche questo fucile così strano ci invoglia e decidiamo di metterlo insieme al Mauser. Non contento il bravo venditore estrae dall’ideale cappello a cilindro ancora un elemento che potremmo definire il massimo del minimo: un fuciletto Kolibrì. “Questo – dice – te lo regalo altrimenti devo versarlo per la demolizione perché non interessa più a nessuno”. L’apparizione, ché tale la si può definire, di questo pezzo minimale di storia armiera suscita immediatamente nella memoria pensieri di quand’eravamo ventenni: ecco dunque il nostro primo approccio con tale ingegnoso ritrovato.
Uno sguardo al passato
A metà del 1965 siamo al CAR della Taurinense a Bra (CN) e il nostro Vecchio, secondo la nomenclatura alpina, arriva da Ceva: nasce un sodalizio di amicizia con i comuni interessi armieri e venatori che si estenderà in particolare al padre di tale commilitone. Frequenteremo per decenni questo personaggio, uno dei Bravi Maestri che abbiamo avuto la ventura di incontrare, apprendendo tantissime cose e conoscendo per la prima volta il fuciletto Kolibrì. Le spiegazioni per la ricarica sono precise e puntuali, considerando come tale prerogativa sia il punto focale del sistema. I bossoli sono ricavati quasi sicuramente al tornio da una barra di ottone e lo spessore inusitato ne consente un uso indefinito; la tasca nel fondello accoglie l’innesco, o un 5,45 classico per cartucce da caccia, o un 6 mm a salve. Un misurino sempre in ottone dà la giusta dose di polvere e poi occorre ricavare con una fustella, sempre venduta con l’arma, le piccole borre trovando spessori minimi in feltro o altro materiale simile. Un altro bicchierino dosatore determina la carica di pallini e ancora la fustella ricava i dischetti di chiusura sostituiti a volte da una goccia di cera.
Con il paterno amico ci troviamo spesso il sabato e un giorno di tardo autunno ci annuncia esultante come sia riuscito sotto ferma della Kyra, la sua setter irlandese, a cogliere una beccaccia ai margini di una forra prossima a casa proprio con il Kolibì. Ci entusiasma questo fuciletto anche se il calcio in tondino metallico con le piccole aggiunte in legno per i punti di presa, esteticamente non piace un granché. Vengono stilati i paragoni con i calibriIndica la misura del diametro interno della canna, se la can… Leggi minimi in voga al momento, quindi il 6 e il 9 mm Flobert a percussione anulare per cui la Fiocchi produce cartucce Normali e a Doppia Forza. Il calibro del fuciletto è 7,5 mm, ma la carica che sopporta è maggiore di quella usuale nel 9 anulare e poi c’è la possibilità di variarla a piacimento entro un certo ambito, così come si sceglie la numerazione dei pallini: nelle anulari è, ovviamente, piuttosto limitata, in pratica si trovano 8 e 10. La trattazione finisce più o meno in tale ambito di curiosità.
Ritorno alla ribalta
La storia del Kolibrì prosegue con il ritiro dell’esemplare in omaggio, posto in rastrelliera da nostro figlio, mai provato essendo sprovvisti dei bossoli specifici e tutto pare terminare così. Invece di questi giorni un caro amico domanda ragguagli perché ha in corso una perizia proprio per un esemplare di questa produzione. Immediatamente sentiamo Carlo raccogliendo una serie di notizie interessanti sul fabbricante. Poco dopo la fine della guerra il rag. Ettore Negro attiva una sua piccola produzione di fucili aprendo l’officina, in piemontese “la bòita”, vicino a piazza delle Erbe nella Cuneo vecchia. Il locale è degno della miglior tradizione quindi angusto, piuttosto buio, con fumi e odori di lavorazione dei metalli, ma con le macchine che servono quali fresa, tornio e trapano a dominare la scena. L’inventiva non manca certo e il titolare realizza sia il Kolibrì monocanna liscio, sia diversi billing (chiamiamoli pomposamente così), paralleli o a canneCilindro metallico di diversa lunghezza e calibro, deputato … Leggi sovrapposte, unendo una canna liscia ad una rigata in calibro .22 LR, sempre sul calcio scheletrico in tondino di acciaio e riporti in legno per l’impugnatura e l’astina che, come vedremo, saranno toccati dalla modernità e sostituiti da stampaggi in sintetico. La produzione procede per poco meno di un ventennio, l’azienda chiuderà nel 1965, e la diffusione risulta notevole per le quotazioni davvero minime e per la funzione venatoria pienamente assolta. Tecnicamente si nota la bascula ricavata da un blocco di acciaio a L con il profilo inferiore a due rebbi, curvo e terminante in un tondo. La parte verticale presenta la testa con profilo superiore smussato e fresato al centro per ricavare la tacca di mira a V e nella faccia spicca il foro con il percussore; i due fianchi fungono con la parte superiore da tavola mentre nel tondo al loro apice è ricavato un foro per il perno di rotazione della canna. La parte complementare è rappresentata dal monobloc di culatta che regge innanzitutto la canna infilata a caldo, sviluppando inferiormente l’unico tenone foggiato a prisma: il particolare si inserisce con buona giustezza fra i due rebbi e un incavo posteriore accoglie il dente di bloccaggio posto sotto alla faccia di bascula. Sul fianco destro è incassato il gambo dell’estrattore che termina con un’unghia di presa con sede a ore 6 del vivo di culatta della canna; dalla parte opposta un ingrossamento si pone a contrasto con il profilo arrotondato della bascula e il movimento di apertura attua l’estrazione. L’apertura è affidata a un piccolo tasto lucidato e con rigature antiscivolo analogo, pur con diverse dimensioni, al grilletto posto subito dietro. Non è prevista la guardia perché il terzo elemento con tale impostazione e finitura è il cane esterno: si prevede generalmente il tiro a fermo, quindi con armamento della batteria solo al momento di eseguire il tiro. Salvo il caso sopra descritto della beccaccia dove la ferma della setter aveva allertato il cacciatore. Per terminare la descrizione della bascula osserviamo come alla parte posteriore squadrata siano saldati i due terminali del tondino sagomato che funge da calcio. La canna, lunga 60 cm è rifinita in maniera spartana, ma non indecorosa e riporta in volata il mirino sferico in ottone.
L’impiego del Kolibrì
Ci riportiamo al periodo del dopoguerra, in particolare agli anni 50 e 60 di cui abbiamo una buona memoria: i piccolissimi calibri erano molto usati perché la caccia minima ai passeracei era un’attività comune e praticata anche dai ragazzini, solitamente istruiti e governati da un adulto appassionato della faccenda. Insieme molti cacciatori di selvaggina nobile non disdegnavano, nei periodi più opportuni, tale pratica magari in barba al calendario e ai luoghi di aspetto. Un particolare di queste armi minimali era la possibilità di ripiegarle sul perno di basculaggio della canna, riducendo così l’ingombro: allora si usavano cappotti lunghi e ampi nonché le mantelle a ruota sotto a cui era un gioco celare l’attrezzo per esibirlo, con tempismo e attenzione, solo al momento opportuno. Il bracconaggio non ci piace proprio, ma non ci permettiamo di giudicare chi allora insidiava queste piccolissime prede cui, a fine giornata, era riservato il posto d’onore sulla tavola. Alcuni poi insidiavano la lepre al covo caricando pallini di maggior diametro che alla minima distanza avevano comunque un sicuro effetto: anche qui ci asteniamo da commenti su etica e sportività, fattori in quegli anni tenuti in conto da pochi. Da ultimo ci pare, ma non ne siamo certi, che il calibro della canna liscia fosse proposto anche in altre misure, forse 8 e 9 mm, aumentando in maniera non proprio vertiginosa le prestazioni balistiche. In queste more descrittive ci sta pigliando la voglia di contattare un amico dotato di tornio per realizzare qualche bossolo: la prova a fuoco a questo punto risulta quasi d’obbligo, così per far cantare questo anziano fucile usato.